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Intelligenza artificiale: serve una rivoluzione metodologica

Il nuovo report di Confindustria sull’adozione dell’intelligenza artificiale nelle imprese italiane – L’Intelligenza Artificiale per il Sistema Italia – Report 2025 – conferma un sospetto ormai strutturale: l’IA non sta cambiando l’Italia. O meglio, sta cambiando una piccola parte di essa. Le grandi imprese si muovono. Le altre no.

Solo il 6,7% delle aziende italiane utilizza almeno una tecnologia di IA. Le PMI, che costituiscono il 95% del tessuto produttivo, restano escluse dal processo.

La ragione è chiara: manca l’infrastruttura organizzativa. L’IA non si integra senza metodo, senza cultura del dato, senza processi gestionali solidi. E oggi, la produttività non si misura più nella velocità del ciclo produttivo, ma nella capacità di progettare e riorganizzare. In Italia, questa capacità manca soprattutto nei servizi, nell’artigianato evoluto, nel commercio, nella piccola manifattura.

Secondo il report Confindustria, tra le imprese che adottano IA il 73% ha più di 50 dipendenti. E oltre il 65% delle soluzioni adottate è concentrato in sole quattro regioni del Centro-Nord. In molte aree del Paese, soprattutto nel Mezzogiorno, l’IA resta una sigla lontana. I motivi? La mancanza di competenze, di consulenza adeguata, di strumenti finanziari facili da attivare e di figure professionali in grado di mediare tra tecnologia e impresa.

Non solo. L’adozione dell’intelligenza artificiale è fortemente correlata a due elementi che il nostro sistema produttivo frammentato fatica ad acquisire: investimenti in formazione continua e solidità organizzativa. Il 70% delle aziende che usano IA ha già attuato progetti strutturati di trasformazione digitale. Questo significa che l’IA non è il primo passo. È l’ultimo miglio. E per percorrerlo, bisogna aver costruito prima tutto il resto.

Per questo la sfida è sistemica. E la risposta non può essere solo fiscale o finanziaria. Serve una strategia metodologica. Serve che l’IA non resti nei convegni o nei centri d’eccellenza, ma arrivi nelle imprese di quartiere. Lì dove si produce, ma non si sa come crescere.

Non servono solo tecnologie. Serve una nuova cultura produttiva. Perché l’Italia che lavora ha già il talento. Deve solo imparare ad attivarlo.

E per farlo serve un ponte: tra innovazione e formazione, tra centri di competenza e imprese reali, tra visione politica e strumenti tecnici. Un ponte che oggi non c’è, ma che deve diventare la vera infrastruttura abilitante del Paese.

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